Gaber e il racconto delle pagine della nostra vita




Ascoltare le parole di Giorgio Gaber può permettere agli uomini, attoniti e sgomenti dinnanzi all’irrefrenabilità del vorticoso fluire delle cose, di guardarsi allo specchio e riconoscere se stessi.

Nell'album “La mia Generazione ha perso” (2001), il cantautore Milanese, a pochi anni dalla morte, conduce l’ascoltatore presso i volitivi sentieri della sua anima. E d’anima, razionale e concupiscibile, volitiva ed irascibile parlava anche Platone. A secoli di distanza, la canzone d’autore di Gaber riconosce un volto autentico ai motori dell’anima che, invisibili ed inafferrabili, muovono il mondo. Il cocchiere del "teatro-canzone" parlava d’amore e passione, di desiderio ed appartenenza.

Quasi vent'anni prima, nel 1972/73, dinnanzi alla sterilità ed al grande smarrimento della natura umana il cantautore, nel brano “L’ingranaggio”, rivelava l’anima d’un uomo prigioniero del labirinto della vita. Poche le stanze che accolgono l’uomo dell’ingranaggio: il lavoro e la fatica, la carezza stanca ad un figlio ed una grigia conversazione con un amico “Anch’io devo andare sempre avanti senza smettere un momento…E faticare tanto e trovarsi con un amico e non sapere cosa dire…Capire che non ho più il tempo per il riso e per il pianto, saperlo e non avere la forza per ricominciare” cantava Gaber.

E difatti, percorrendo le strade della tortuosa sterilità dell’uomo moderno, qualche anno dopo, nel 2001, nel brano “Verso il Terzo Millennio”, il cantautore scriveva: “l’uomo in questa quasi indifferenza non è più capace di ritrovare il suo pianeta fatto di aria e luce”. Il gioco di potere e l’epidemica opinione pubblica avvolgono, inesorabili, l’apparente quiete della condizione umana, la qualità viene subordinata alla quantità (“la qualità non è richiesta, è il numero che conta”), la massa scardina, irremovibilmente, l’individuo (“E immagino un futuro senza alcun rimedio una specie di massa senza più un individuo”). E qualche anno prima, nelle Lezioni Americane (“Sei proposte per il prossimo millennio”), di futuro e di confusione figurativa scriveva anche Italo Calvino: “Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini.” E l’autore pensava ad una “possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, icastica”.

Gaber e Calvino, avendo volto oculatamente lo sguardo verso il prossimo millennio, desideravano identificare, pedagogicamente e dilettamente, l’interiorizzazione figurativa del volto d’un sentimento e d’un valore. Lottavano nel disperato tentativo di recuperare, nella rete invisibile della comunicazione, la vita e la passione.

Difatti, alla tersa rappresentazione del mondo futuro, Gaber oppone, platonicamente, il fulgore dei sentimenti. Nel serbatoio filosofico di Platone, la bellezza rischiarava, gradatamente, la Verità. Prima la bellezza del corpo, poi dell’anima, poi delle scienze, poi la Verità. Tuttavia, sconosciuta a noi la Verità, talvolta, percorsi da un’asettica quiete, camminiamo, impavidi, presso le strade della vita. Dimentichiamo la seducente forza del mistero dell’esistenza, capace di stimolare il desiderio e la genialità: “Il desiderio è la cosa più importante Che nasce misteriosamente /è il vago crescere di un turbamento che viene dall'istinto/ è il primo impulso per conoscere e capire è la radice di una pianta delicata che se sai coltivare/ ti tiene in vita".

Gaber non evocava solo la passione amorosa, ma anche la volitiva operosità degli uomini, la partecipazione comunitaria ed una valutata appartenenza.

Per l’amore, dinnanzi all’irrefrenabile fluire della vita, opponeva, solitaria, l’immagine d’ un uomo e d’ una donna, metafora d’una salvifica navigazione attraverso le tempeste: "E poi e poi e poi non saremmo più soli io e lei/finalmente coinvolti davvero potremmo guardare il futuro e riparlare del mondo non più come condanna ma cominciando da noi, un uomo e una donna".
Giorno dopo giorno, Gaber ce lo insegna: solo appartenendo, avendo qualcuno dentro al nostro cuore, riusciamo a scardinare il muro della sterile indifferenza e dell’irragionevole quiete. Solo desiderando, riusciamo ad aprire le porte della volitività e della passione. Solo amando, riusciamo a varcare le soglie della tolleranza e della condivisione. Solo immaginando, superiamo l'asettico limite della quotidianità.

In tempi bui per giovani viaggiatori, la canzone di Gaber non configura solo la malinconia e l’irrequietezza. Gli occhi e la voce del cantautore Milanese sono la sana utopia che, ogni giorno, segretamente o apertamente, coltiviamo.

Una penna ed una strada erano le metafore del Cavaliere Inesistente di Italo Calvino. Un labirinto ed alcune stanze sono le metafore della casa poetica di Gaber. All’interno delle quali gli uomini cercano se stessi. Talvolta aprono la porta dell’appartenenza. Talvolta aprono la porta dell’odio. Talvolta aprono la porta del desiderio. Talvolta aprono la folgorante porta della bellezza e, estaticamente, cercano di cogliere una Verità esistenziale e trascendente: il senso della vita.

Platone e Gaber esortano l’uditorio a trovarlo nell’Idea e nel Pensiero. Gradatamente l'Idea di Platone raggiunge la Verità, il Pensiero di Gaber lo smarrimento e l'utopia. Piatto invisibile ed inafferrabile d’una portata, il Pensiero configura così il discrimine fondamentale fra l’uomo e l’Universo. Comprendiamo la nostra miserevolezza e la nostra grandiosità solo attraverso il discernimento. Coltiviamolo dalle porte della nostra vita.

Con la forza del pensiero, dopo il periodo Sanremese dei primi anni '60, Gaber decise di raccontare, abbandonando la commercializzazione del panorama musicale della massificazione, quello che sentiva: lo smarrimento "di fronte a gesti che, da uomo, non posso pensare miei".

In una rara intervista all'Espresso del 1981, Sergio Saviane chiedeva a Giorgio Gaber: "É più importante uno che muore come potrei morire io con il gas della stufa o uno che muore al tiro della brigata rossa o uno che muore… vabbè ne muoiono tanti".

"É importante uno che sappia cosa dire, che abbia uno scopo, che sappia popolare la sua vita. In realtà noi non sappiamo cosa dire, ci mancano i progetti, ci manca tutto…" Giorgio Gaber
(Intervista all' Espresso, 1981. A cura del giornalista Sergio Saviane)

Ed ecco, racchiuso nelle parole di Giorgio Gaber, il senso della vita d'un uomo, spesso poco ascoltato o ascoltato male. Vittima della "follia suicida" del mondo e figlio d'una platonica utopia, in tempi foschi e difficili, ci insegnava a dire ad un amico: " Non è mai finita".


Se qualcuno di voi è interessato all'intervista di Giorgio Gaber di seguito trovate il link: https://youtu.be/eWzEVR8rPPs

                               Laura Cati
   
                                                                                                                         

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