Il fantasma nello specchio Ep. 2



Rimasi ferma sull’uscio della porta per un tempo che mi sembrò infinito.  In fondo alla stanza piena di scatoloni si trovava  uno specchio alto e largo, che rifletteva un’ombra che non era la mia. L’immagine dello specchio era della stessa donna che avevo visto precedentemente. Un corpo lungo ed esile, coperto da una veste bianca e luminosa con le maniche così lunghe da coprirle le mani. Rimase a fissarmi per un po’, poi alzò il braccio sinistro verso uno degli scatoloni. Quando riuscii a sbloccarmi dall’immobilità in cui la paura mi aveva ghiacciata, mi avvicinai all’oggetto indicato dall’immagine nello specchio. Era una scatola logora e vecchia, impregnata dell’umidità della stanza. Cercai di strappare con forza il nastro adesivo che teneva chiuso il pacco, quando lo aprii una nuvola di polvere mi coprì la faccia. Iniziai a frugare tra le vecchie scartoffie nel contenitore, poi trovai una cornice con dentro una vecchia foto. Spaventata, ma allo stesso tempo incuriosita, posi l’immagine davanti allo specchio. Il volto della donna ritratto nella foto e quello del riflesso erano identici. La donna nel riflesso accennò ad un sorriso, poi annuì e scomparve. Le urlai con tutta la forza che avevo di restare, di dirmi di più, ma mi sentii stupida a parlare al nulla. Abbracciai la cornice, poi decisi di prendere tutto lo scatolone incriminato e di portarlo alla luce, dove avrei potuto esaminare tutto quello che c’era dentro. Inorridita dalla sporcizia della stanza la chiusi alle mie spalle e portai la scatola in cucina, dove mio nonno attendeva che tornassi. Svuotai tutto il contenuto  sul tavolo e iniziai ad ispezionarlo. Oltre alla foto di quella strana donna, della quale la mia famiglia non aveva mai parlato, c'erano scartoffie, appunti presi a penna su fogli usati in cui si parlava di avvenimenti giornalieri o sogni fantasiosi. Mi chiesi di quanto fossero vecchie quelle storie, chi nella famiglia avesse avuto una vena artistica tale da scrivere storielle così ben argomentate. Mostrai la foto di quella donna a mio nonno, cercando delle risposte.

-Lei chi è? Lo sai?

Lo chiesi due o forse tre volte, ma il nonno non fece altro che scuotere la testa. Continuai a studiare i fogli che non avevo ancora letto, quando mi resi conto che molti dei pezzi di carta che avevo scartato formavano un’unica pagina. Andai a cercare della colla per rimettere i pezzi insieme e presa di nuovo dalla curiosità cercai con cupidigia tutti i frammenti di quel foglio per capire cosa le fitte frasi dicessero. Attaccai l’ultimo pezzo e feci un sospiro profondo prima di leggere. Il titolo della pagina mi lasciò sbigottita, poteva essere mai vero? 

-Certificato di adozione.

Lessi a gran voce e sperai in qualche reazione del nonno che mi potesse spiegare il significato di quel foglio, in cui i miei genitori chiedevano formalmente la custodia di una bambina di soli pochi mesi dal nome “Arianna”.
Il mio cuore iniziò a battere, ma continuai a leggere cercando il nome dei miei genitori biologici, trovai solo quello di un uomo e il suo indirizzo, probabilmente si trattava di mio padre. Mi avvicinai al nonno con gentilezza e cercai di chiedergli di più sulla mia adozione, chiedergli se lui ne sapesse qualcosa.

-I tuoi genitori te l’avrebbero detto dopo il liceo, ma sono morti prima di farlo-

Le parole di nonno Albert  mi fecero capire che quello che avevo letto era vero. Riguardai il nome di mio padre, Daniel Pitt. Dovevo assolutamente vederlo, magari creare un rapporto con lui, l’unica vera persona che nelle vene portasse il mio stesso sangue, sapere perché mi aveva data via, chiedergli chi fosse la donna nello specchio, mia madre, forse. Rilessi l’indirizzo, mio padre viveva a New York, molto lontano, troppo. Nei giorni successivi mi preparai alla partenza che sarebbe avvenuta subito dopo la cerimonia del diploma. In una settimana feci in modo che i miei documenti fossero in regola e chiamai una vecchia amica di famiglia perché si occupasse di mio nonno mentre ero via, non era un familiare di sangue, ma tenevo a lui più che a chiunque altro. Il giorno del diploma arrivò e il mio viaggio ebbe inizio.

Era la prima volta che uscivo dall’Europa, non avevo viaggiato molto nella vita, ero stata cresciuta in Italia nella casa di famiglia di quella che, a quanto pare, era la mia madre adottiva e solo durante le feste facevamo visita ai parenti del mio padre adottivo in Scozia. Il volo durò così tanto che ebbi il tempo di scrivere un discorso da fare a Daniel Pitt, mostrandogli il mio certificato di adozione. Fu l’unica cosa che portai in viaggio, oltre alla foto della donna misteriosa di cui dovevo ancora capire il nome e soprattutto che rapporto avesse con me.  Scesa dall’aereo c’era il tassista che avevo ingaggiato per una settimana intera che mi portò nella camera d’albergo che avevo per sicurezza prenotato. Indipendentemente dal fatto che il mio vero padre avesse voluto vedermi o meno, avrei sfruttato il viaggio per vedere la grande mela, in fondo era il mio sogno da sempre. Andai nella camera d’albergo per fare una doccia e per prepararmi all’incontro più importante della mia vita. Era pomeriggio presto quando uscii dall’hotel per dirigermi verso l’indirizzo scritto sul certificato. Mi feci lasciare dal taxi qualche isolato più avanti così da permettermi una passeggiata nelle belle vie di New York . Arrivai davanti alla casa dove ci sarebbe dovuto essere Daniel Pitt e attesi un po’. Studiai la casa, era strana e cercai di farmi un’idea su di lui basandomi su ciò che vedevo, poi mi feci coraggio e suonai il campanello.
                           Francesca Peluso

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