Questo non è Open e io non sono Agassi

 


Se fino ad ora i miei colleghi hanno tentato la via “mens sana”, per un attimo io richiamo la via “corpus sanum”. No, non ne metto più “latinorum”.

Ok, ora ho finito davvero, d’altronde i ricordi sono quelli che sono. Vi parla un modesto calciatore divenuto poi un arbitro. Mi scuso già per i rigori non assegnati negli anni con la speranza che, in questo modo, a mia madre, di domenica, smettano di fischiare le orecchie. Non ho idea del perché io lo faccia ancora, ma vi assicuro che, a suo modo, è rilassante, forse perché tra la carriera di calciatore e quella da arbitro c’è stato uno sport che mi ha fatto penare ancora di più: il tennis.
 Ed è di questo che vi voglio parlare. Delusi? Volevate sentire gli insulti più fantasiosi, lo so. Invece vi parlo di questo sport di cui non vi frega assolutamente nulla perché “come fai a stare 3 ore a guardarti due che buttano la palla da sopra una rete?” Perché…cioè è il piacere di…non c’è solo questo, ma anche…” va beh, zitti e leggete.

Non copierò la pagina di Wikipedia che spiega l’evoluzione delle racchette, la differenza tra le superfici e quant’altro. Quello potete farlo anche da soli. Quello che vorrei fare è portarvi virtualmente con me in campo per farvi provare le mie stesse emozioni. Per farlo, rievoco la mia ultima partita.

Giugno 2016. Su un campo polveroso di terra rossa va in scena la mia ultima partita di torneo. Avevo deciso per il ritiro. E, a dirlo così, fa ridere perché ero un triste 4.4 (la classifica locale parte dal 4.6, giudicate voi) che, da un po’ di mesi, si allenava malissimo e giocava peggio perché aveva perso la motivazione. Per problemi di tempistiche, la partita si svolge alle 12. A giugno. 35 gradi all’ombra.
Il mio avversario, un giovane giudice arbitro(le coincidenze della vita!!!), figura locale tennistica che si occupa di controllare il normale svolgimento dei tornei locali nei quali ci si arbitra da soli, aveva la mia stessa classifica, ma per scherzo, perché mi era stato detto che valeva quasi la categoria successiva, a rigor di logica, la terza. 
Ed ecco già la prima implicazione di questo gioco infernale che, pian piano, proverò a spiegarvi: l’avversario. 

Di solito l'avversario è una merda,  un condizionamento psicologico non da poco.
Se entri in campo arrabbiato perché la mamma ti ha costretto a pulire la camera e sei arrivato in ritardo al campo, stai sicuro che lui se ne accorgerà. I soliti 10 minuti di attesa prima della fine della partita precedente li passate a fissarvi attentamente e a capire chi, come, da dove, chi è il maestro e tante altre cose deliranti. Durante la partita, se sta vincendo, caccerà urli neanche fosse alla finale di Wimbledon, e invece ci sono solo  due spettatori, la madre e la fidanzata. Per te invece nessuno perché è già tanto se al campo ci sei arrivato. Se sta perdendo, comincerà a prendersela con la sua racchetta, con le palline, con il meteo, con le buche (sulla terra), con il nastro, con i rumori, e con qualunque altra cosa che possa giustificare la sua situazione. Di norma, se trovi quello stronzo, ti ruba anche i punti nonostante tu abbia preso la riga e si sia alzato un polverone bianco che si vede anche dal bar del circolo.
Volete la verità? Anche voi siete avversari. Ma torniamo a noi.

Nella partita il  mio avversario è un tipo cortese, così forte della sua superiorità da non aver nemmeno bisogno di giochetti. Ed infatti nel primo set, in soli 20 minuti, mi ha stampato un 6-0 dritto in faccia. Per la verità a me non sembra di aver giocato poi così male, ho solo perso 4 game sulla parità.

Altro argomento: il punteggio. 15, 30, 40, gioco. 6 giochi fanno un set. Con 2 set incamerati vinci la partita. Se ti trovi sulla parità, 40-40, devi prima fare il punto del vantaggio e poi un altro per vincere il gioco. Ed io non sono stato bravo in questi punti, che sono poi quelli che decidono come va una partita. Ci rifletto un attimo seduto sulla sedia con un asciugamano sulla testa, ma non vi riporto i commenti che facevo perché sarebbe solo una serie interminabile di bip. Fuori il nulla, solo Pino, l’incordatore di racchette , che, come al solito, ride perchè ho preso un 6-0 (non esattamente una cosa di cui vantarsi). Ora, consentitemi una citazione acuta: mi sentivo come Oliver Twist abbandonato a sé appena nato. Va beh, penso, poco male, tanto a parte Pino non c’è nessuno che mi stia guardando.
Ma cazzo, io non voglio comunque finirla così, voglio lottare, non si dica che mi sono arreso proprio alla mia ultima partita. Mi alzo così arrabbiato dalla sedia, pronto per sparare una battuta vincente e lasciare il buco a t….doppio fallo. Si, le avevo sbagliate entrambe e stavo giocando il secondo set esattamente come avevo finito il primo, cioè sotto.

C’è un momento nel tennis, ma anche nella vita, in cui più in basso di così non puoi andare. Ed è quello il momento in cui decidi di risalire. Resetto tutto. Smetto di pensare. Comincio a colpire la palla a caso, avevo deciso che sarebbe entrata. E, mentre lo pensavo, entrava davvero. 1-0, avevo vinto il mio primo gioco della partita. Ammazza! In quel momento sarei anche potuto uscire, il mio gioco lo avevo conquistato, senza pensare a Pino, all’avversario ( ora incredulo), all’ultima partita o ai 35 gradi che mi facevano scoppiare: avevo solo pensato a colpire la palla.
E così ho  cominciato anche a divertirmi. Strano, era da un po’ che quello sport non mi dava quelle emozioni. Ero in partita, lottavo, alzavo vergognosi campanili in aria (facevo il “pallettaro”, come si dice in gergo) pur di non perdere punti, pur di restare lì attaccato al suo culo. La mia “non strategia”, con mia grande sorpresa, stava funzionando. Avevo ammesso a me stesso che ero una schiappa ed ero riuscito a liberarmi dall’arroganza di dover dimostrare, a tutti i costi, di saper giocare.
Dovevo solo buttarla al di là della rete, avrei usato anche il…va beh.
Insomma, arriviamo sul 6-6. "Tie break", per coloro che non lo sanno, chi arriva prima a 7 punti vince il set. Penso: caspita, sono arrivato fino a qua, ora non posso perdere, tutto lo sforzo sarebbe buttato, non puoi, dimostra chi sei. Ci ero ricascato. Pronti, via, stavo perdendo 4-0. Memore dell’esperienza, non mi arrabbio, resto glaciale, e ricomincio a giocare completamente a caso. 7-6. Il secondo set era mio.

Ora, davvero pensate che io abbia rimontato e vinto la partita? Sveglia, non è un film. Nella realtà succede che al terzo set stai morendo per il caldo, ti sei spremuto completamente per vincere il secondo e ti muovi come un pinguino, mentre il tuo avversario è lì, freschissimo, a urlare “VAMOSSSSS” e “COME OOOOON” come un esaltato.

E perdi 6-1. Perdi perché, se nei mesi prima avessi affrontato il problema e ti fossi allenato meglio,  probabilmente al terzo set avresti avuto più energie. Perdi perché, se nel primo set avessi pensato di più al contenuto del gioco e non alla cornice, la partita sarebbe già finita. Perdi perché ogni giorno scegli di essere mediocre. Ed ero lì, a stringergli la mano come un cadavere, avvilito come sempre, sconfitto dal tennis, che poi è come perdere con se stessi, dato che, in fondo, sei solo tu che decidi come va a finire. Non a caso, non siamo responsabili di ciò che ci succede, ma di come ne rispondiamo.
Uscito dalla doccia, Pino urlava “Puglieeeeee, ancora a persuuuu??? Mo ieni, ca ti offro nu ghiacciolo”.

E finiva così uno dei capitoli della mia vita che più mi ha fatto crescere e che, anche alla fine, mi ha ricordato il senso della morale che, poco più tardi, ho portato con me nell’arbitraggio.

Questo è il tennis. E, come ogni giocatore o ex, ne resto profondamente appassionato. Così, con il tempo, se vi va, proverò a  raccontarvi qualcosa sulla sua struttura e sui suoi più grandi interpreti. 

Al prossimo articolo!

                                                                                                                        Antonio Pugliese

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