IGOR, Tyler The Creator. La recensione
Un basso distorto si prolunga per 23 secondi, seguono un breakbeat e delle urla ripetute; poi un coro “Ridin’ round town they gon feel this one”.
Tanto vale trascrivere il primo approccio ad IGOR, perché descriverlo, invece, è impossibile.
Tyler, The Creator ha deciso di arrivare lì dove il suo precedente lavoro si era fermato.
Dopo tanti chilometri in sella alla propria McLaren, ha deciso di fare ritorno al terrificante armadio che si era lasciato alle spalle e di guidarci al suo interno. Questo album non è quindi un viaggio, né
tantomeno una storia d’amore conflittuale, ma uno straordinario e intricatissimo monologo interiore.
Potrebbe sembrare una forzatura, perché nei fatti l’album parla di un triangolo amoroso tra Tyler, un ragazzo e una ragazza.
Tyler è follemente innamorato di un ragazzo, il quale però non riesce a decidere se stare con lui o con un’altra ragazza. Questo è tutto ciò di cui l'ascoltatore è messo al corrente. Ma chi è questo ragazzo, quali tratti unici lo caratterizzano, che ruolo occupa nella società non ci è dato saperlo, proprio perché non è importante.
Il titolo dell’album è molto emblematico. In tal senso “Igor” è come si vede Tyler davanti all’amore che gli ha spezzato il cuore, proprio come Igor, il deforme e inadeguato protagonista di Frankenstein. A riprova di ciò l’album non si chiama “Love”, ma “Igor”, e il motivo è lapalissiano:
l'oggetto d'interesse dell'artista è senza dubbio il suo scombussolato subconscio.
L’intero progetto è immerso in un vivido onirismo di ispirazione freudiana, un sogno pulsante di
vita che rivela le sofferenze e le fragilità del protagonista, sprofondato in un rapporto tossico.
“Sei mio”, “Fai tremare la mia terra”, “Sei così fottutamente pericoloso”, “Sono il tuo pupazzo”.
L’amore raccontato da Tyler è unilaterale e incostante, ma sempre, visceralmente intenso. È un amore bipolare, senza mezzi termini, vie di mezzo o punti di riferimento, reso alla perfezione da una produzione semplicemente sconfinata.
Non è ipotizzabile che quelle melodie espressionistiche e quei timbri fluttuanti provengano da un posto diverso dall’anima di Tyler. I beat switch repentini, gli inaspettati bridge dall’aroma jazz e le decine di pitch differenti con cui il timbro grave dell’artista si maschera sono tutti elementi stilistici ricorrenti nella discografia del Nostro, ma qui è la loro fioritura (per usare un termine tyleriano) a
plasmare un prodotto sbalorditivo. Le influenze di Pharrell Williams e di Kanye West (specialmente 808s & Heartbreak) non sono mai state così evidenti, eppure mai così in secondo piano rispetto al genio creativo di Tyler; è come se avesse interiorizzato questi influssi esterni con l'unico fine di lasciarli fuggire da una perdita in fondo al proprio Es.
Tutto il lavoro è cucito in finissime fibre lo-fi, che contribuiscono notevolmente a questa narrativa psicologica. Ogni singola, flebile stonatura e imperfezione vocale di Tyler non viene nascosta, bensì esaltata dal mixaggio, presentando il suono in maniera ambigua e irresistibile all'orecchio. Le voci dei featuring (Solange, Kanye West, Lil Uzi Vert, Charlie Wilson, Playboi Carti, CeeLo Green,
Pharrell, e altri) vengono pure loro trasformati dall’intricato processo di editing, ma non per questo apportano un contributo poco significativo, anzi paiono parte integrante delle indistinguibili ombre che brillano lungo la durata dell’album.
Tutto è così indefinibile che ogni cornice gli starebbe stretta.
La meraviglia celata in IGOR è proprio ciò che fa di lui un mostro, ovvero quell’intrinseca
stravaganza che ti costringe a fissarlo per cercare di scorgere il bello nella sua bruttezza.
L'illimitatezza dello spazio, che ci spaventa e nel contempo ci spinge a volerlo conoscere a
menadito, la strana miscela di morte e vita che è l’amore.
IGOR è questo, dal primo all’ultimo secondo un limite tendente all'infinito.
9.9/10
Giuseppe Mancino
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