Mafia e politica: "Due facce della stessa ipocrisia"

Molto spesso tra osservatore e vicenda intercorre un potente mezzo che come un filtro può pulire, distorcere e cambiare a suo piacimento il menù da servire al pubblico. Questo mezzo è la macchina da presa.

Come un depuratore la cinepresa snellisce, assottiglia, depura quello che sta riprendendo e rende sempre più visibile il confine tra realtà e apparenza; qualcuno diceva che un buon film viene etichettato come tale nell’esatto momento in cui ci si scorda che sia un film.

Nel corso della storia del cinema si è sempre discusso sull’accentuazione o lo sbiadimento della linea di separazione tra realtà e finzione e, negli ultimi anni, si sta assistendo a una netta discrezione della lente dell’obiettivo, che diviene più nascosta ma più potente.

Senza guardare troppo ai mostri d’oltre oceano, nel nostro paese sta avvenendo una drastica rivoluzione nel narrare la realtà e la storia di cui l’Italia è ricca; è tristemente vero però che, molte volte, i film che si fanno carico di temi importantissimi, come ad esempio il fenomeno della criminalità organizzata, risultano essere ancora troppo romanzati, offrendo spesso una narrazione introspettiva dal punto di vista dei mafiosi stessi, vedasi “Il traditore” di Bellocchio. Non è di questo che gli uomini hanno bisogno, non di un film in cui il mafioso sembra quasi un antieroe, ma di opere che non abbiano paura di far venir fuori tutta la disgustosa montagna di corruzione, stragi e accordi sotto banco che, per lunghi anni, hanno avvelenato il nostro Paese e per cui adesso più che mai si pagano le conseguenze.

In questo campo la linea di lettura portata avanti da registi quali Sorrentino e Sollima sta riscuotendo successo non solo al botteghino, ma soprattutto nella mente dello spettatore.

Il filtro di lettura che rendeva tanto romanzato un argomento come la criminalità organizzata, è ormai diventato inefficace: questa “paura” del narrare di come le strade grondino ancora sangue e di come i Palazzi romani siano pieni di note rosse, non può più esistere. La denuncia sociale data dai film sta per diventare ormai un cult, mentre c’è ancora chi manda buste ai registi e c’è chi al cinema storce il naso guardando ad esempio come questi siano riusciti a dare un’identità diversa alle loro pellicole: Sollima ha reso cruda e schietta la situazione romana devastata da mafia capitale che si sta rigenerando con un altro nome; Sorrentino invece con la sua potentissima scrittura, a tratti squisitamente ironica, non ha avuto paura di far affiorare una verità che per molti è sempre stata scomoda o difficile da accettare.

 


La politica italiana e la mafia sono entrate sin troppe volte in contatto tra loro, in un meccanismo macabro e agghiacciante che gli “illustri” politici italiani hanno costruito nel corso degli anni. Sorrentino questo lo sa e vuole che anche gli spettatori lo sappiano; con questa premessa nasce “Il divo”, film del 2008 scritto e diretto da Paolo Sorrentino, che si focalizza sul VII governo Andreotti e sulla sua caduta nel 1992. La domanda fondamentale a cui il regista punta per dare una risposta, non è tanto “come?” o “quando?”, ma “perché?”. La rivelazione arriva sfrontata e diretta, e le parole del Divo sembrano quasi proiettili nella raffica dello splendido monologo magistralmente recitato da Servillo.

Ecco il video del monologo di Toni Servilo che, nel film, interpreta Giulio Andreotti.

https://youtu.be/dtyQqKAL4SA

 

Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava, io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa – ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della Tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della Sopravvivenza". Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch'io.”

 Mai risposta fu più azzeccata. Andreotti ritiene di essere stato costretto a mentire e a sporcarsi le mani nella machiavellica convinzione di aver fatto il bene della Nazione. Non ci vuole molto per capire che queste siano giustificazioni a dir poco inutili. Il senatore a vita è stato senza dubbio uno degli uomini più potenti della storia della prima Repubblica: molto di questo potere però non è derivato solo dalle sue indubbie doti politiche, ma anche e soprattutto dal fatto che molte volte ha preferito soffocare la verità, come nel caso dell’onorevole Moro o del suo memoriale, per il quale ci furono gli omicidi “Pecorelli” e “Dalla Chiesa”; tutto ciò in favore di una storia a lui più congeniale. Questo potere lo si percepisce nella fase finale del film, il “processo” in cui, nonostante le confessioni congiunte di molti mafiosi, l’esito finale del primo e secondo grado fu lo stesso: “prosciolto dalle accuse perché i fatti non sussistono”. Bisognerà aspettare il 2004 perché venga riconosciuto colpevole, anche se solo di essere stato un associato di “Cosa Nostra” solo fino alla fine del 1980, visti poi alcuni provvedimenti da egli stesso adottati negli ultimi suoi anni di governo 1989-1992 in contrasto alla criminalità mafiosa.

Ovviamente se egli si può definire il protagonista assoluto della pesantissima denuncia mossa da questo film, Sorrentino non manca di sottolineare anche l’importanza che nei legami con la mafia hanno avuto i membri della “corrente andreottiana” in particolare nella figura di Salvo Lima.

Il film regala due ore stupende che danno luce al capitolo più buio della storia italiana e invita chi non si è mai avvicinato agli eventi per accidia o per paura, a non fermarsi solo a quelle che sono le apparenze, ma anzi a scavare a fondo anche se la verità può fare paura. Non è un film fatto per piacere ma per denunciare la falsità che ha guidato l’Italia per anni e che è necessario comprendere per capire meglio il pericolo che la mafia ancora oggi rappresenta.

 

Anche se di tutt’altra natura, l’opera di Sollima, regala un quadro di realtà non di minor rilevanza.

Il “filtro molestie” voluto dai “supervisori” cade sotto i colpi di pistola di una Roma che si fa strada tra le mafie storiche le quali, attraverso le parole di Don Vito Corleone, dicevano ancora che “la droga è un business sporco”. La nuova criminalità nata all’inizio del ventunesimo secolo ha imparato a non far esplodere più le bombe, o meglio, a farle esplodere una volta occupate le bellissime poltrone del parlamento. L’arte della politica di cui avevano parlato Platone e Aristotele è diventata ormai il monopoli, dove chi costruisce più case vince.

Proprio da ciò Sollima parte, senza aver paura di sporcarsi le mani nel far vedere che in un festino si possono trovare il mafioso, il cardinale e il politico. La criminalità descritta dal regista è come un polipo che cerca di infilare i tentacoli in qualsiasi fessura presente, non è quindi la mafia degli uomini d’onore che sono anti-eroi affascinanti, non è la mafia che guarda da lontano col binocolo prima di azionare il telecomando; quella raccontata è la mafia protagonista, quella nella prima linea della politica, della Chiesa, della prepotenza, del potere, del controllo.

La mafia raccontata da Sollima non è quella che, nel suo credo, si impegnava a proteggere i deboli, le donne, i bambini, anzi, è quella criminalità che crea le vedove, che fa diventare deboli e che uccide i bambini.

La nuova era ha portato delle maschere da indossare per raggiungere i propri scopi: oggi in nome della democrazia facciamo passare Casapound che apre la caritas ai più bisognosi e poi incendia le case di quelli che parlano troppo. Il mostro con mille facce oggi trova sempre più campo libero, ha imparato a mascherarsi talmente bene dietro il nome di un partito o dentro le lamborghini, che ormai “la mafia non esiste più perché lo STATO è la mafia”. Nella pellicola del regista romano la credenza che la mafia non esista più è assolutamente assente, anzi si gioca proprio su come la mafia sia nello Stato e come lo Stato sia nella mafia; processo durato per tutta la fine del ventesimo secolo e che all’inizio del nuovo continua a spingere e a macinar voti. La coalizione stato-mafia viene però presentata come asimmetrica e simmetrica allo stesso tempo: il contrasto tra buono e cattivo non esiste, come non esiste l’uguaglianza totale tra politico e mafioso. Lo scopo finale di ogni individuo è presentato col puro egoismo e con un machiavellismo che esce dai ranghi anche per lo stesso Niccolò, i modi perseguibili sono diversi e stanno ad evidenziare la continua evoluzione della criminalità e della politica… o forse no! La politica di ieri era totalmente diversa: basata sulla retorica, sulla strategia, sulla parola; la politica di oggi deve fare i conti con la tempestività, con i cinque minuti di pausa che ha un lavoratore per andare su twitter a leggere qualche programma politico. L’arte politica cambia, e forse la mafia no: l’immediatezza è sempre stata il cavallo di battaglia della criminalità, perché usare le perifrasi quando è più efficace una pistola puntata in testa. La battaglia a colpi di chi è più veloce, diviene il terreno perfetto per una mafia che ha imparato a infilarsi ovunque con la consueta e solita violenza che sposa bene l’immediatezza di un politico, il quale, a sua volta, non ha tempo di aspettare la giustizia dei palazzi, meglio ricorrere a quella della strada.

Il monopoli ormai ha sempre più giocatori, e, mentre Ostia si riempie di ville, qualche magistrato pieno di piombo prega ancora che quella cinepresa possa funzionare.

                                                                               Scritto da Nicolò Legrottaglie e Giuseppe Arpa

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